Correva l’anno 1960 – avevo 15 anni… ero in terza media…

TEMA IN CLASSE:

Oggi voglio parlare di….


…la pesca. Ecco uno sport che mi entusiasma e mi appassiona. Non so perché ho scelto questo argomento, ma quando dico la parola “pesca” in me si forma una immagine di acqua limpida e gorgogliante che mi dà un senso di gioia e di allegria: questo è forse causato dal mio animo sognatore e se vogliamo un po’ romantico.
Prima di parlare di questo sport è bene considerarlo dal suo lato più serio: questa fu una delle fonti di vita nei tempi più remoti per gli uomini primitivi e lo è ancora per le popolazioni marinare. Ma la pesca non va considerata come un mestiere perché così diventa dura e faticosa, come lo è il lavoro dei pescatori  che mettono in mare le loro barche al tramonto per tornare all’alba, spesso con scarsa preda.
Uno sport come la pesca non è, come molti pensano, una attività per commendatori (e quando dico commendatori intendo alludere a imponenti gentiluomini con tanto di pancia, occhiali e zucca pelata) nel loro giorno di riposo.(*) E’ questo hobby attivo e divertente e non noioso e inutile come lo fanno apparire i molti vecchi pescatori che si vedono lungo la spalletta dell’Arno. Per uno che non ha mai praticato questo sport, il vedere quei pazienti vecchietti che “bagnano l’esca” suscita un senso di compassione e spesso fa loro salire alle labbra la solita frase ironica “che abboccano?”(**)
Sinceramente dico che a me quel genere di pesca non piace: io preferisco la pesca attiva, dove l’acqua corre, dove si pescano pesci che anche se non sono grossi, sono frequenti. Naturalmente parlo di pesca nell’acqua dolce, in giornate estive o primaverili e autunnali: non concepisco il divertimento che molti provano pescando d’inverno quando l’acqua è troppa e limacciosa.
Mia madre sembra non partecipare alla mia “foga di pesca” e ogni volta che parto armato di canne e stivaloni scuote la testa bonariamente. In compenso però c’è mio zio che è anche lui un pescatore e spesso andiamo a pescare insieme. La pesca che preferiamo è quella forse più nobile; quella della trota.
Questo pesce dalle carni prelibate vive nei corsi d’acqua fredda e limpida e quindi per pescarlo bisogna andare nei torrentelli di montagna.
Si parte la mattina presto verso le 4 o le 5 con la Lambretta per destinazione che non è mai meno lontana di una cinquantina di Km. da Firenze. Anche di estate è bello correre per le strade a quell’ora deserte e vedere il sole spuntare da dietro i monti scuri dipingendo il cielo con riflessi rossi e dorati come un pittore inesperto e dispettoso. La brezza fresca che aumenta o diminuisce a seconda della velocità ci sveglia del tutto e mentre corriamo, ci gridiamo a vicenda le nostre previsioni sulla giornata. Riusciamo appena ad afferrarle che subito si perdono dietro di noi come i paracarri ai bordi della strada.
Finalmente si arriva a destinazione e subito ci apprestiamo a montare la canna, poi ci tiriamo su gli stivali fino alla coscia e cominciamo a pescare. Confesso che spesso mi sorprendo in uno stato di gioia quasi infantile. Forse per i non pescatori che leggeranno questo mio tema il mio comportamento e stato d’animo è insignificante e sciocco, ma non è così. Chi è infatti colui che non è attratto dalla natura? Trovarsi in un torrente incastrato fra i boschi e le montagne, con l’acqua fresca che gorgogliando casca di sasso in sasso, ora sperdendosi, ora riunendosi formando una larga pozza, ora scomparendo sotto una roccia scavata, ora formando una cascatella bianca e spumeggiante. Forse sarà una mia idea, ma vedere il sole che facendosi largo tra le foglie degli alberi che sovrastano il corso d’acqua come un verde tunnel, illumina i sassi sul fondo del torrente, udire il cinguettio degli uccelli liberi e felici e sentire la frescura di quei luoghi dove i rami frondosi degli alberi sembrano fondersi in un caloroso e forte abbraccio a lottare uniti contro i raggi del sole per impedire loro di frugare fra l’acqua chiara e fresca mi dà un senso di libertà e di gioia.
Mi pare di essere un evaso dai rumori cittadini e dalla gente e mi sembra di essere come quegli uccelli che cantano e svolazzano di ramo in ramo.
Ed eccomi intento a pescare: rannicchiato dietro un masso o una frasca frugo con l’amo sotto le cascatelle e nei pozzi più profondi cercando di scovare la trota. La canna e la lenza sono tese come lo sono io pronto a scattare al momento buono. (***)
Improvvisamente uno strappo alla lenza mi avvisa che la trota non ha resistito all’esca ed ha abboccato. Vincendomi, aspetto qualche frazione di secondo e poi la canna scatta con un colpo secco. Ecco che qualcosa di vivo lotta sotto l’acqua, con salti improvvisi e virate impetuose cerca di sottrarsi alla morte. La lenza è tesa al massimo e la canna vibra sotto ai colpi vigorosi della bestia. Tutto freme, anche il mio cuore, ma devo essere calmo e stancare la preda. Infine con un gesto secco alzo la canna e la trota esce dall’acqua attaccata all’amo sempre lottando spasmodicamente contro la morte. Le mie mani si tendono sul pesce e le mie dita lo sentono viscido e forte. Attento che con un guizzo non mi sfugga lo confronto con la misura regolamentare di 18 cm. E’ più lunga di due o tre centimetri e soddisfatto la metto nel cestino di vimini dove la sento sbattere ancora la coda. Poi i colpi si fanno sempre più rari fino ridursi in silenzio. La giornata continua così, più o meno fortunata, interrotta solamente da un breve pasto frugale consumato sull’erba, lì vicino all’acqua.
Poi viene l’ora del ritorno: il sole comincia ad eclissarsi dietro ai monti ripetendo lo spettacolo della mattina. Il fresco che aveva imperato durante la giornata lì sul torrente si muta in un freddo umido, tutto diventa più cupo: è la notte.
I fari della Lambretta si accendono e comincia così il viaggio di ritorno. Io e mio zio pensiamo alle trote pescate, muti per la stanchezza, ma felici per la giornata trascorsa. A casa poi la preda fa bella mostra di sé sotto gli occhi dei miei genitori. Benché siano morte quelle trote sembrano ancora vive e scattanti con quelle loro macchioline rosse e sfumature azzurre. Le congratulazioni mi ripagano della levataccia.
Poi il sonno ristoratore mi avvolge e dormendo sogno un paradiso terrestre con un torrente incastrato tra i monti e nascosto dagli alberi.

***
NOTE
(*)    Oggi un po’ lo sono diventato!
(**)  Ancora non erano di moda le gare. Qui si allude ai pescatori “a fondo”
(***) Si tratta della pesca “al tocco” con  i lombrichi, la così detta “casentinese”

Ritrovo questo scritto nell’ottobre del 2008, dopo quasi mezzo secolo  da quando l’ho scritto e nel rileggerlo:
  • Mi ha commosso perché ci ritrovo la mia giovinezza, le mie ingenuità e le prime esperienze;
  • Mi inorgoglisce perché in tutti questi anni ho mantenuta salda questa mia passione;
  • Mi compiaccio perché le sensazioni sul torrente sono rimaste le stesse;
  • Mi rattrista per le descrizioni truculente di morte che allora ho irresponsabilmente procurato;
  • Mi congratulo per aver “evoluto” il mio percorso di pescatore sia sotto il profilo tecnico che etico;
  • Mi dolgo per la povera insegnante che ha dovuto sorbirsi in questo tema un concentrato di retorica, formalismo, qualunquismo e perbenismo: spero che mi abbia dato 4!
                                                                                                             Roberto Daveri


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